20 febbraio 2021

Mastering a pagamento: cosa ne penso

Recentemente, mi è capitato di discutere con alcuni amici sul nascente fenomeno della masterizzazione a pagamento. Non mi dilungo a spiegare di cosa si tratta, sia perché mi pare piuttosto auto-evidente, sia perché chi frequenta questo nostro pazzo mondo conosce già l'argomento.


Fonte: Wikimedia Commons

Ho avuto modo, in più occasioni di esprimere delle perplessità a riguardo che, come è giusto che sia, mi hanno procurato alcune critiche che ho accolto, e accolgo, di buon grado. Per questo motivo, mi fa piacere approfondire un po’ la questione, e spiegare meglio quali siano queste perplessità.

Innanzitutto un chiarimento: non ho nulla in contrario all’idea in sé della masterizzazione a pagamento. Semmai, come ho già avuto modo di dire, se un lavoro dev’essere, la mia preoccupazione è che generi redditi dignitosi e tasse pagate, come per qualsiasi altro lavoro.

Ma tre dubbi restano.

Il primo riguarda l’eccessiva (per me) insistenza sull’idea di professionismo che soggiace a questa proposta commerciale. Innanzitutto perché produce, magari involontariamente, una distinzione di cui davvero non si avverte la necessità, tra il Master “professionista” e quello “non professionista”. Mi sfuggono canoni e criteri che possano definire tale differenza, mi sfuggono i metodi di valutazione. Mi sento rispondere che se c’è gente disposta a pagare non c’è bisogno di altro criterio di valutazione. Forse è vero, dipende anche molto dall’idea che ciascuno ha di come gira o dovrebbe girare il mondo che abbiamo intorno. Però occhio, che a misurare solo coi soldi, Barbara d’Urso diventa una grande giornalista e Gigi d’Alessio il Mozart contemporaneo. Ma c’è dell’altro. Nell’attività di masterizzazione c’è un elemento di circolarità e condivisione che la rende peculiare. È vero che il Giocatore-Master profonde un impegno nel gioco quantitativamente superiore a quello dei Giocatori-Personaggi, ma al tavolo si sta insieme, equamente. Lo schermo del Master non è la stessa cosa di un palco di teatro o di concerto, e il Master non è più performer di quanto lo siano i Personaggi. Magari, anzi probabilmente, è più bravo a performare, ma il suo ruolo non è di ordine superiore, e questa è una delle cose più belle e gratificanti del GDR: il suo intrinseco egualitarismo al tavolo. Se passa l’idea che il Master sia un professionista da pagare, per quale motivo non dovrebbe passare l’idea che anche i giocatori (se “professionisti”) possano chiedere un compenso? Davvero, perché no? Inoltre, a volerla dire tutta, di GDR masterless ne esistono eccome, di GDR playerless no, per forza di cose. Il che, ad estremizzare il ragionamento, dovrebbe farci riflettere su chi è veramente indispensabile al tavolo.

Seconda questione. C’è un elemento di gratuità e di dono nel maggiore impegno del Master che è parte della bellezza dell’esperienza ludica, e che non merita di scivolare nel “non-professionismo”, nella mera amatorialità, nell'entry-level - cosa che invece rischia di accadare qualora si affermasse l'ideologia commerciale del Master professionista. Oggi, è chiaro, non siamo a questo punto, nemmeno lontanamente. Ma la via tracciata dalla masterizzazione a pagamento a mio avviso ci porta proprio in quella direzione. Ora, non bisogna essere ipocriti, il mondo ludico è anche un mondo di mercato. Ci sono editori che realizzano profitti, ci sono autori che ne traggono un riscontro economico; per alcuni l’attività autoriale rappresenta anche la fonte principale di reddito. Ma c’è, e a mio avviso deve permanere e resistere, nella pratica ludica un forte elemento di gratuità e di dono, perché questo elemento è proprio ciò che connota e distingue un lavoro da un gioco. Anche qui, mi rendo conto che è facile essere fraintesi. Non intendo dire che autori ed editori devono farsi pagare, mentre ai Master deve essere proibito farlo. Dico solo che la dimensione ludica può reggere solo una certa quantità di logiche commerciali al suo interno, prima di snaturarsi e andare in frantumi. Non è né oscena né indicibile la speranza che nelle nostre vite restino spazi dove il mercantilismo resti alla porta. Non è tutto un “mercato”, un “finché c’è gente che paga non è un problema”, un “è un prodotto come un altro”. La socialità, la condivisione, l’essenza della dimensione ludica non sono merci, e spero che non lo diventino mai. E - sia detto per inciso - è per questo che se metto in fila i lavori che ho distribuito gratuitamente negli anni e quelli pubblicati da case editrici, i primi superano di gran lunga i secondi.

Terza e ultima questione, il problema delle royalties. Se io sono un cantante e do un concerto a pagamento dove interpreto canzoni scritte da altri, è sacrosanto che paghi i diritti d’autore. La voce è mia, l’abilità nel suonare è mia, le capacità interpretative sono mie, ma la canzone no. E se io ci faccio i soldi sopra con un biglietto d’ingresso, è giusto che gli autori delle canzoni che canto ne ricevano una quota parte. Come la mettiamo con la masterizzazione? Se mi faccio pagare per masterizzare Curse of Strahd, perché il suo autore non dovrebbe avere diritto a delle royalties? Che vogliamo fare? Siamo tutti d’accordo che le cose procedano così? Ci sta bene? No, perché vorrei evitare quella ben nota situazione in cui “è il mercato, baby” finché i soldi li devo prendere io, dopodiché diventa “libera arte” se devo versare dei diritti a qualcun altro.

E quindi, prima di sdoganare e spingere l’acceleratore verso questa dinamica, e di salutarla come fosse "la nuova frontiera del gaming" e la testimonianza della "propulsività del nostro mondo che genera nuove figure professionali", sarebbe meglio fermarsi a riflettere su tutte le sue implicazioni.

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